2018, 2023, 2025: la Francia in mobilitazione permanente
di Alberto Madoglio
Dopo il movimento dei Gilet Gialli - iniziato nel novembre del 2018 e proseguito per buona parte dell’anno seguente - e quello contro la riforma delle pensioni targata Macron – Borne nel 2023, la Francia si trova ad affrontare una nuova esplosione di rabbia e malcontento sociale, che ha tutte le caratteristiche per superare le precedenti. La scintilla che ha fatto esplodere la situazione è stata la presentazione nel luglio scorso da parte del premier Bayrou di una legge finanziaria che è riduttivo definire «lacrime e sangue».
Il declino dell’imperialismo francese
L’ormai ex premier francese (sfiduciato dall’Assemblea Nazionale l’8 settembre) era intenzionato a varare una manovra finanziaria nella quale erano previsti tagli allo stato sociale e una serie di sacrifici per la classe lavoratrice per oltre 40 miliardi di euro. Tra le misure proposte vi erano: l’abolizione di due giornate festive; il cosiddetto anno in bianco con il blocco degli aumenti per pensioni e altre prestazioni sociali per il 2026; il taglio di migliaia di posti di lavoro nella funzione pubblica e una drastica riduzione del turnover nel settore pubblico con l’assunzione di due lavoratori ogni tre pensionandi; un raddoppio della franchigia per il rimborso delle spese mediche; una riduzione degli aiuti sanitari ai malati gravi e l’accorpamento di diversi bonus a favore dei lavoratori in un unico assegno con relativa riduzione dell’importo elargito.
Quali sono le ragioni che hanno spinto Bayrou a prendere una decisione così radicale che, conoscendo la storia e le tradizioni combattive del proletariato, avrebbe potuto innescare una ribellione sociale di massa?
Come abbiamo scritto in maniera più approfondita in un articolo apparso sul numero 22 della nostra rivista teorica Trotskismo Oggi, il declino dell’imperialismo francese è ormai un processo irreversibile che va avanti da oltre mezzo secolo. Questo declino comporta una perdita di peso dell’economia e dell’industria francesi (crescita economica anemica, calo della produttività del lavoro) e di importanza politica (basti pensare alla cacciata delle truppe francesi in diversi Paesi dell’Africa centrale che una volta erano possedimenti coloniali di Parigi). Alcune posizioni di forza e prestigio a livello internazionale (essere membro permanente con diritto di veto alle Nazioni Unite; l’avere a Strasburgo la sede, a turno con Bruxelles, del parlamento europeo) sono più il retaggio del passato di potenza che non lo specchio della attuale forza a livello globale.
Questa situazione da anni ha avuto pesantissimi riflessi sulla tenuta dei conti pubblici. Da tempo la Francia chiude i suoi bilanci statali in deficit. Quest’anno il dato dovrebbe essere superiore al 5% e si prevede che per diversi anni non rientrerà nei famosi parametri del Patto di stabilità europeo che prevedono un rapporto deficit - Pil non superiore al 3%.
Se si entra più nello specifico, il fatto più preoccupante per la borghesia riguarda il cosiddetto avanzo (o disavanzo nel caso di Parigi) primario, cioè il rapporto tra entrate e uscite prima del pagamento degli interessi sullo stock del debito pubblico.
Dall’inizio del XX secolo il debito pubblico francese è raddoppiato in termini percentuali e questo rende non ulteriormente rinviabile per il governo borghese di turno usare una cura simile a quella usata per cercare di sanare i conti (a spese della classe lavoratrice) italiani nel 2011, pena il pericolo di dover dichiarare l’impossibilità di onorare il debito statale.
La propaganda governativa e dei mass media al servizio del capitale hanno cercato di far passare l’idea che la correzione di bilancio fosse un atto per certi versi neutrale, che avesse solo lo scopo di far rientrare la Francia nei binari di una corretta finanza pubblica.
La realtà però è completamente diversa. Il carattere classista, antioperaio della proposta Bayrou era evidente, come si può intuire dalla descrizione che abbiamo fatto poco sopra. Va aggiunto che l’unica voce di bilancio che non veniva toccata era quella delle spese militari (in questa epoca vera gallina dalle uova d’oro per i capitalisti in ogni angolo del mondo) e per i redditi più alti era previsto solo un generico riferimento a contribuire allo sforzo di risanamento del bilancio.
La risposta della classe operaia non si è fatta attendere
La natura antioperaia della Finanziaria è stata compresa dai lavoratori che si sono mobilitati per respingere questo ennesimo attacco lanciato dal capitale nei suoi confronti.
Sono state convocate due giornate nazionali di mobilitazione, il 10 e il 18 settembre, la prima organizzata dal Bloquons tout (blocchiamo tutto), un movimento che ricorda in parte la mobilitazione dei Gilet Gialli, la seconda organizzata da tutte le principali organizzazioni sindacali del Paese.
Giocando d’anticipo, Bayrou ha richiesto un voto di fiducia per il suo governo, sperando di ottenerlo e di disinnescare così le due giornate di lotta. Il suo piano però è fallito. La maggioranza dei partiti, consapevoli della montante rabbia popolare, ha voluto evitare di essere associata nelle rivendicazioni dei manifestanti ai partiti che fino all’ultimo hanno provato a difendere l’esecutivo.
Le giornate del 10 e del 18 sono state un successo. Nella prima delle due ci sono state oltre 450 azioni, tra cortei, blocchi stradali, picchetti di sciopero, con un totale di 175.000 manifestanti secondo la polizia (che ne aveva previsti 100.000 il giorno prima), 250.000 secondo la Cgt.
Il 18 il successo è stato persino superiore. I manifestanti sono stati oltre un milione secondo fonti sindacali: 200.000 a Parigi, con i trasporti pubblici locali quasi completamente bloccati, e altre decine di migliaia a Tolosa, Nantes, Rennes, Grenoble e Marsiglia.
Si sono registrati il 40% di adesioni allo sciopero nelle scuole superiori, 30% nelle elementari: 170 licei e università bloccate e decine di migliaia di studenti in sciopero e in piazza. La rete ferroviaria in tilt. Un terzo dei lavoratori del settore energetico (si è calcolato che ciò sia equivalso al blocco di 3 centrali nucleari) ha scioperato.
Chi è spaventato da questa nuova ondata di lotte cerca di sminuirne la portata facendo superficiali paragoni con il recente passato. Si evidenzia come le prime manifestazioni dei Gilet Gialli avessero un numero superiore di partecipanti, o che per il primo sciopero del 2023 contro la riforma delle pensioni la mobilitazione fu superiore. Ma per analizzare seriamente il corso della lotta di classe non ci si deve fermare a un singolo fotogramma: si deve vedere tutta la pellicola.
Il film in questo caso è ancora agli inizi ma i padroni già si preoccupano che per loro il lieto fine non sia assicurato. Da cosa lo possiamo intuire? Dal fatto che il nuovo premier incaricato Lecornu si è detto disponibile a ritirare la misura più impopolare, cioè l’abolizione di due giornate festive. O dal fatto che il Partito Socialista (che di socialista ha solo il nome) abbia posto come condizione per sostenere il governo l’abolizione della riforma delle pensioni. E stiamo parlando del partito che dai tempi di Mitterand, passando per Jospin fino a Holland, è stato il principale agente delle politiche anti operaie. Si è forse miracolosamente convertito alla causa del proletariato? No, la rabbia popolare è così estesa e profonda e la predisposizione alla lotta così radicale da costringere gli stessi partiti borghesi alla cautela.
Tutti cercano di proporre concessioni più di forma che di sostanza, con la speranza di tornare all’attacco e sferrare il colpo definitivo in un momento di eventuale riflusso della lotta di classe.
E più o meno è quello che cercano di fare i vari burocrati sindacali. Certo, se paragonati ai nostri Landini e Bombardieri, i segretari di Cgt, Cfdt e Force Ouvrière appaiono come dei rivoluzionari tutti d’un pezzo. In realtà anche loro sono alla ricerca disperata di un segnale che possa consentire di firmare una resa senza condizioni, a patto di salvare i privilegi dei loro apparati burocratici. Cos’altro è stata la decisione di lanciare un «ultimatum» al governo per il 24 settembre, una settimana dopo lo sciopero del 18, anziché proclamare una mobilitazione permanente per consolidare e allargare il successo di quella mobilitazione?
Il quadro politico e le prospettive
A destra, Rassemblement National di Marine Le Pen approfitta della crisi e chiede nuove elezioni politiche, anche se forse non è intenzionata a forzare più di tanto su questa rivendicazione, sia per dimostrarsi come forza responsabile agli occhi degli ambienti economici borghesi, sia perché un Presidente della Repubblica e governi deboli possono essere il modo migliore perché quel partito nel 2027 possa fare l’en plein: avere la maggioranza alla Assemblea Nazionale e il Presidente della Repubblica.
A sinistra, France Insoumise oggi appare come il più risoluto tra i partiti che hanno una rappresentanza parlamentare. È il solo che esplicitamente chiede le dimissioni di Macron e – almeno a parole - una svolta radicale sul terreno delle politiche fiscali. Non possiamo escludere che in caso di una precipitazione della crisi politica sotto la spinta delle lotte, la grande borghesia francese possa, magari contro voglia, affidarsi a un governo guidato dallo stesso Melenchon. Se ciò avvenisse, si tratterebbe dell’ennesimo governo di collaborazione di classe, che presto o tardi tradirebbe le promesse fatte alla classe lavoratrice, continuando sulla strada delle politiche di austerità.
Se ci è permessa una citazione dalla saga cinematografica di Guerre Stellari, chi si illude che un tale governo possa essere la Nuova Speranza per gli sfruttati, ben scoprirebbe il Lato Oscuro, rappresentato dal capitalismo. L’esperienza del governo Syriza in Grecia e più di recente dei Laburisti in Inghilterra sono qui a dimostrarlo.
Da due secoli a questa parte le sorti della lotta di classe nel Vecchio Continente si decidono per le strade di Parigi. La classe operaia deve dotarsi di forme di autorganizzazione delle lotte, comitati di sciopero nei posti di lavoro, nei quartieri popolari, nelle scuole, eleggere dei rappresentanti a livello territoriale che successivamente si riuniscano nazionalmente, costruendo una direzione alternativa a quella delle burocrazie sindacali.
E tutto va di pari passo con la costruzione di una direzione comunista in grado di dirigere i lavoratori mobilitati verso la costruzione, per via rivoluzionaria, di un vero governo dei lavoratori, sola garanzia per evitare che le sconfitte del passato possano ripetersi.
Noi guardiamo alla lotta dei nostri fratelli di classe in Francia con piena fiducia e la solidarietà che diamo loro non è solo simpatia astratta, ma consapevolezza che la loro lotta è la nostra. Una vittoria rivoluzionaria in Francia aprirebbe la strada a lotte e rivoluzioni in tutto il mondo.